Non occorreva attendere gli eventi delle ultime settimane per avere la consapevolezza che prevenire è più difficile che punire. E che un adolescente che commette un crimine è sempre anche vittima del contesto sociale, di una deresponsabilizzazione del mondo adulto. Cosa possono fare oggi i genitori, le scuole, i territori? Prima di tutto mostrare ai ragazzi un futuro di possibilità, metterli di fronte a strade aperte, non certo alle pareti chiuse di una prigione.

Il Vangelo ci racconta del padre che al ritorno del figlio che aveva commesso molti errori prendendo una strada sbagliata, “gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò…”. Se la parabola, come scrive la Treccani, è una “narrazione di un fatto immaginario ma appartenente alla vita reale, con il quale si vuole adombrare una verità o illustrare un insegnamento morale o religioso…” allora bisogna dire che, nella vita reale, è molto difficile trovare oggi qualcuno capace di apprezzare un insegnamento morale di quel livello. Se padri come quello della parabola ci sono, certo non sono quelli che hanno il potere di scrivere o approvare leggi. Perché un insegnamento morale è di per sé stesso un atto educativo e quindi d’amore, e d’amore per i nostri adolescenti se ne vede poco in giro.

Amore per i figli sì, ma i propri, che, se commettono atti riprovevoli, non li hanno commessi, oppure non sono colpe o la colpa non è loro. Ma quando è il figlio di un altro che ha sbagliato, allora non si prova a capirlo, ad aiutarlo; piuttosto che gettarsi al suo collo come il padre del figliol prodigo gli si mettono le manette ai polsi.

Prevenire è più difficile che punire, e forse crea meno consenso immediato; ma rimuove un dato gigantesco: qualunque adolescente o ragazzino commetta un crimine, è sempre anche la vittima di un contesto sociale e culturale, di una deresponsabilizzazione del mondo adulto.

Questo atteggiamento pesa tremendamente sulla scuola, che, in questa cultura dilagante, viene ridotta a centro di contenimento e correzione; come se la violenza fosse insita in ciascuno, come un peccato originale da estirpare, e non il riflesso speculare di quella respirata in una società che scarica sull’adolescenza un mix micidiale di tensioni e messaggi violenti.

Più di vent’anni fa, dal ministero, allora dell’istruzione pubblica, fu lanciato il “Progetto Genitori”, che nel testo si poneva la questione: educare i genitori perché abbandonino la domanda “Come va mio figlio?”, per passare a quella: “Dove vanno i nostri ragazzi?”. Non più, quindi, l’interesse per il solo presente del proprio figlio, ma quello per il futuro dei “nostri ragazzi”; sul quale quel “Noi” ci riconosce tutti responsabili. Oggi il governo, a quel “dove vanno i nostri ragazzi?” sdogana la risposta: anche in carcere. Ma è una risposta inaccettabile.

Abbiamo memoria viva di un alunno ospitato in una casa famiglia, che aveva incorporato per osmosi una dose considerevole di rabbia, sfociata in atti di ribellione difficili da gestire. Sarebbe stato facile scegliere la via della punizione e scaricare il problema totalmente sui servizi sociali; invece, un gruppo di insegnanti capaci ha scelto di imbrigliarlo a scuola, con una promozione certamente assai generosa il cui risultato fu, però, dare all’alunno il tempo per trovare altre strade su cui incanalare e depurarsi dalle tossine assimilate. Una mattina la scuola subì l’incursione di un gruppetto di ragazzi ospitati nella stessa casa famiglia, in missione punitiva contro di lui; c’era da attendersi una reazione del nostro alunno di ugual grammatica, invece chiese ai docenti di accompagnarlo alla più vicina stazione dei carabinieri. Dal terzo anno di scuola, fino al quinto, quello studente fu eletto rappresentante degli studenti nel Consiglio d’istituto. Non fu un miracolo, fu il risultato naturale di un percorso di crescita personale, accompagnato da adulti, capaci di testimoniare la possibilità di prendersi cura dell’adolescenza curando la qualità del contesto, che, se è davvero inclusivo, educa al di là delle parole.

Troppo spesso guardiamo ai ragazzi e alle ragazze con un teleobiettivo, sfocando lo sfondo; dovremmo invece usare un grandangolo, per inserirli su uno sfondo messo a fuoco e curato tanto quanto il soggetto.

In nessuna parte del mondo la punizione può essere considerata, di per sé, una forma possibile di educazione. E appare paradossale la proposta di allontanare gli alunni difficili da scuola, che ha il compito di educarli perché diventino degli adulti responsabili e socialmente utili, per affidarli ai lavori socialmente utili, facendo diventare quel fine una punizione.

Se vogliamo che i figli che hanno perso la strada la ritrovino, la risposta è mostrare loro un futuro di possibilità. Metterli di fronte e strade aperte, non alle pareti chiuse di una prigione.

Giuseppe Bagni e Giuseppe Buondonno

Fonte: TerritoriEducativi


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Giuseppe Bagni e Giuseppe Buondonno, insegnanti, sono anche autori del libro Suonare in caso di tristezza. Dialogo sulla scuola e sulla democrazia (PM edizioni), di cui è possibile leggere qui un paragrafo: Sapere disinteressato.